Per non dimenticare l’insegnamento del 25 Aprile e della Resistenza, da ottanta anni in difesa della democrazia

Ottant’anni fa, il 5 marzo del 1943, a pochi chilometri da Rivalta, negli stabilimenti Fiat di Mirafiori, gli operai incrociavano le braccia e davano inizio a uno sciopero generale che nel giro di poco tempo si allargò a tutta la città e poi a tutte le fabbriche del Nord Italia. Fu la prima manifestazione di dissenso nei confronti della dittatura e assunse subito un indubbio significato antifascista.

Fu, soprattutto, una prima embrionale forma di «resistenza». Una resistenza “passiva”, fatta di disobbedienza civile, di episodi di sabotaggio e di una netta presa di posizione di una larga parte della popolazione che con il regime non voleva aver niente più da spartire. Una resistenza senza armi, almeno fino alla caduta di Mussolini e all’armistizio dell’8 settembre.

Per il pane, la pace e la libertà. Questa era la piattaforma rivendicativa, diremmo oggi, di queste prime azioni di protesta. Ecco cosa ha significato per l’Italia il ventennio fascista. Una popolazione allo stremo, stretta dalla morsa della fame, una Nazione in guerra, un lungo periodo di odio e privazione delle libertà individuali e collettive.

E come non vedere che è proprio la mancanza di pane, pace e libertà a muovere ancora oggi milioni di uomini e donne dal Sud del Mondo, invaso da carestie, guerre e dittature, a quello che per loro rappresenta una speranza di pane, pace e libertà. Come possiamo noi che queste privazioni le abbiamo vissute sulla nostra pelle girarci dall’altra parte, chiuderci anziché aprirci, respingere anziché proteggere chi sta combattendo una nuova Resistenza.

Ma torniamo ad ottant’anni fa, senza perdere però il filo di una storia che si ripresenta uguale ancora oggi in tante parti del Mondo.

Il 5 ottobre del 1943 l’Unità, il quotidiano fondato da Antonio Gramsci – giovane comunista arrestato e incarcerato dal regime fascista con il solo scopo di reprimere chi la pensava diversamente -, con il suo titolo «Guerra contro l’aggressione nazista, guerra civile contro i fascisti suoi alleati» riconosceva per la prima volta che in Italia era iniziata una lotta armata tra le forze democratiche e quelle reazionarie.

Come ricorda Donato Antoniello nella pubblicazione «Rivalta partigiana» (LEGGI QUI) voluta e promossa ormai più di venti anni fa dall’allora amministrazione, sono stati più di cinquanta i rivaltesi che in quei lunghi mesi che vanno dal settembre 1943 alla primavera del 1945 hanno dato il loro contributo alla lotta di Liberazione nelle valli del Sangone. I loro nomi sono scritti sui monumenti, sulle targhe, sulle lapidi che qui e in altri luoghi della nostra città testimoniano e ricordano a tutti ogni giorno il loro impegno, il loro coraggio e per alcuni anche il loro sacrificio.

Ottanta anni fa Rivalta era molto diversa da oggi: viveva di rapporti sociali molto stretti, certo più di oggi, con i tempi delle giornate e della vita scanditi ancora dai ritmi della campagna e della vita contadina. È lì che fa irruzione la guerra, non quella Mondiale ma quella di casa nostra, quella «tra chi ha ragione» e «chi ha torto». E trova tanti giovani impreparati ad affrontarla, ma con le idee chiare e che sapevano bene da che parte stare.

Ancora oggi qualcuno ricorda che la Resistenza a Rivalta inizia nel dicembre del 1943, con un manifesto del Partito Fascista Repubblicano: la neonata repubblica di Salò pretendeva l’arruolamento nelle fila del nuovo esercito. Ma nessuno voleva andare a combattere con la camicia nera addosso. Naturale che tanti, quasi tutti, preferissero «andare nei partigiani» anche se in quegli ultimi mesi di autunno ancora non si capisse bene chi fossero e cosa facessero i «partigiani».

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